Il mozzicone di matita
Pino Parente IL MOZZICONE DI MATITA RACCONTO
Dopo tutto quello che conta non è certo...
Non ricordava più da quanto tempo questo
incipit mancato, questo attacco del nulla, questo grumo di parole
senza senso si coagulava sul foglio di carta che aveva davanti e
ostruiva la sua vena: ogni volta che si metteva a scrivere,
appena la sua mano si fermava in attesa delle idee, la penna si
metteva in moto da sola e scriveva meccanicamente quella frase.
Pur di liberarsene, aveva tentato di tutto: aveva assecondato
l'automatismo fingendo di entrare in trance, aveva forzato la
mano, spingendo la penna oltre quell'ultima parola che troncava
il pensiero, aveva cambiato la disposizione delle parole, aveva
capovolto la frase in negativo per arrivarci per esclusione.
Niente da fare. L'aveva anche voltata in poesia, ma non c'era
stato verso. Dietro quell'ultima parola si apriva un vuoto che lo
inghiottiva in una caduta infinita, in un volo a testa in giù,
senza mai planare, senza mai toccare il fondo, sempre più
velocemente, giù, come in un sogno da cui si esce solo
svegliandosi. Il suo risveglio consisteva nel rimettere il
cappuccio alla stilografica. Dentro quella frase, nella
successione e concatenazione delle parole, nel loro tentativo di
costruire un significato, nel loro preludere ad un senso, si
annidava, ne era certo, la sua crisi creativa. Una crisi che si
era manifestata dopo la pubblicazione del primo libro con cui si
impose all'attenzione benevola ma piena di riserve della critica
che lo rimanda alla prova del fuoco del secondo libro. Una prova
che non riuscì ad eludere ma solo a rimandare con un volume di
racconti che ruotavano intorno al tema e ai personaggi del primo
romanzo: in realtà capitoli scartati in fase di abbondanza
creativa e poi riciclati per nascondere la crisi. Il suo
curriculum di scrittore finiva qui: dove cominciava il suo
estratto conto, gli assegni subito incassati, i diritti d'autore,
i cachet televisivi, i compensi per le interviste e le opinioni a
un tanto la riga, i gettoni di presenza, le consulenze e via
presenziando. Rivelatori della crisi furono gli anticipi sui
libri futuri che il suo editore gli concedeva generosamente in
cambio di dichiarazioni di intenti, vaghi accenni di trame,
abbozzi di idee. Invece l'attivismo frenetico, alimentato anche
dagli acconti, era un paravento dietro cui nascondeva la
coscienza sempre più certa della crisi. Infatti tutte le volte
che si metteva a scrivere si trovava davanti a quella frase, si
bloccava e impercettibilmente la sua attenzione scivolava dal
contenuto al supporto tecnico della scrittura: alla grafia, al
modo di scorrere del pennino sulla carta, all'impugnatura della
penna, alla rugosità del foglio, allo spessore del tratto,
alluniformità dell'inchiostro. Lentamente ma
inesorabilmente divenne preda di una specie di feticismo della
scrittura che lo portò a dare vita, personalità e carattere
agli strumenti del suo lavoro, a provare una gioia del possesso
fine a se stesso, oltre l'uso e la funzionalità, a dedicare
un'attenzione e una cura maniacale a questi oggetti, che
arrivarono a compenetrarsi nell'atto stesso di scrivere, a
diventarne il motivo dominante, ad assorbirne le energie e le
tensioni. Imbastì anche una fragile difesa costruita sulla
teorizzazione dell'impasse, sulla autoriflessione,
sull'autoanalisi: cominciò a discettare sulla base materiale
della scrittura che ne condizionava gli esiti: sulla soglia tra
manualità e automaticità, tra meccanica e tecnologia che
bisognava attraversare: sulle diverse modalità
di
manifestazione di un'idea che ne influenzava la composizione: sui
passaggi non certo neutri da un'idea pensata a un'idea
trascritta. Una trincea che il contatto subitaneo con l'editoria
trasformò in fortezza: ora che scriveva per pubblicare, non
poteva continuare a scrivere come prima: la trasposizione
tipografica non poteva essere solo un fatto tecnico: nel
passaggio dal manoscritto al dattiloscritto alla composizione
tipografica si perdeva e si aggiungeva sempre qualcosa e lo
scrittore tipografico non poteva non tenerne conto.
L'impaginazione tipografica presupponeva la formattazione del
pensiero: i margini, i paragrafi, le pagine, gli spazi bianchi,
le rientranze dovevano avere dei corrispettivi mentali e lo
scrittore doveva avere il libro già stampato in testa. Ma quando
tentò di metterlo in pratica proponendo all'editore di andare a
scrivere direttamente in tipografia, saltando tutta la fase
solitaria, manuale, artigianale della scrittura, si sentì
rispondere che uno scrittore doveva pensare solo a scrivere: a
stampare ci pensava lui. Troppo tardi: ormai lo scrittore era
entrato in uno stato di sindrome da pubblicazione, scrivere e
stampare non erano più due cose diverse e separate e la sua
crisi non riguardava tanto che cosa scrivere, ma come scrivere,
con che cosa scrivere.
"Più lontano dagli altri, piùù vicino a te stesso": così recitava il titolo di un depliant pubblicitario che lo scrittore si rigirava tra le mani, incerto se considerarlo uno scherzo o una proposta seria. Il titolo intrigante lo aveva colpito per l'abilità di dire tutto senza dire niente, di fare da contenitore alle aspettative di chi lo leggeva. Gli era stato recapitato da un'agenzia di viaggi insieme ad un biglietto aereo andata e ritorno per M., un vademecum per il viaggio con tutte le notizie e gli indirizzi utili, una guida turistica dell'arcipelago e, appunto, quel depliant che descriveva le bellezze ancora sconosciute di una minuscola isola: tutto accompagnato da un biglietto dell'editore che gli augurava "una buona vacanza di lavoro". Era sbalordito. Non riusciva a crederci. L'editore non poteva aver interpretato alla lettera i suoi discorsi sul bisogno di isolamento, sulla necessità di fare i conti con se stesso, senza diaframmi, senza distrazioni, senza scuse cui aggrapparsi. La sua era stata solo una delle tante variazioni sul tema "che mi invento stavolta?", un gioco a rimpiattino con se stesso e con l'editore come schermo, per giustificarsi, per rimandare, per non affrontare il problema. La scusa questa volta era stata di una banalità sconcertante, doveva ammetterlo. Anche in questo, aveva avuto momenti piùù creativi. Ma da qui ad arrivare al viaggio sull'isola, ci correva. Come poteva funzionare un espediente così ovvio per aggirare una crisi che aveva un carattere superiore? Per chi era stato scambiato? Per uno scrittorello da quattro soldi in cerca di spunti, di ispirazione? Per uno scrittore da viaggio? Che ci andava a fare uno come lui per quattro settimane su un'isola deserta? Per chi lo avevano preso, per un manager in crisi che va a ritemprare le forze in una full immersione nella natura selvaggia? per il partner di una coppia clandestina, per un appassionato della sopravvivenza? Che cosa si aspettavano che riportasse indietro, un romanzo esotico, un reportage turistico, una storia naive? D'improvviso sentì la cappa della banalità calargli addosso come un coperchio e seppellire sotto il suo peso insostenibile tutte le sue velleità, le sue diversità, le sue domande, le sue crisi. L'editore, questo ormai era chiaro, si era stancato di far finta di credere alle sue scuse e aveva deciso di tallonarlo da vicino, di non lasciargli piùù agio e spazio di crogiolarsi, aveva cominciato a prenderlo sul serio, a dare risposte vere alle sue false scuse. Niente da dire: era una mossa vincente. Delle due, l'una: o lo scrittore ammetteva la pretestuosità della scusa e quindi la verità della sua crisi, o incassava il colpo, faceva buon viso, accettava il gioco. Delle due, l'una e l'una: l'editore lo aveva attirato allo scoperto e prima o poi lo avrebbe smascherato. Meglio poi.
Cominciò a sentirsi fuori posto appena
scese dall'aereo. Al controllo passaporti si sorprese ad
invidiare i turisti in fila dalla parte opposta che rientravano a
casa. Sul taxi fece tutto il tragitto fino al porto rivolto
all'indietro, come a volersi fissare bene in mente il percorso.
Quando salì sul motoscafo che lo trasportava sull'isola ebbe una
crisi di pianto che svanì quasi subito per lasciare il posto a
un imbarazzo che invece durò tutto il viaggio. In aggiunta il
pescatore sfoderò una ritualità
di gesti e di
atteggiamenti da far rabbrividire e vergognare anche il più
ingenuo dei vacanzieri: viso arso dal sole, color nerobronzo,
capelli biondoluce che conservavano solo alla base il loro
originale colore scuro, petto ricoperto da peli bianchi,
incorniciato da una camicia aperta sul davanti e annodata in
vita, braccia muscolose risaltate dalle maniche strette, jeans
scoloriti e consunti che gli fasciavano le anche e le gambe,
piedi nudi e callosi. Si chiese se la diffidenza era solo un lato
del suo carattere, il suo personale modo di intercettare la vita
o, se, in qualche modo, risiedeva nella realtà e veniva alla
luce casualmente sotto i suoi occhi. Oppure, più semplicemente,
se quel pescatore era stato contaminato dall'immagine dei
pescatori e si era adeguato: tanto più era falso, tanto più era
vero. E allora tanto valeva stare al gioco: cominciò a
rispondergli, a sorridergli, fino ad assecondare la sua
commovente solerzia voltando la testa ora di qua ora di là in
direzione del suo dito che gli indicava ora un atollo ora un
vulcano ora un branco di pesci sul fondale trasparente ora una
barriera di coralli. Seguiva ma senza vedere. Alla fine del
viaggio non trattenne nulla, i suoi occhi scivolando sui paesaggi
come la barca sul mare, ma senza schiuma, senza neppure gli
spruzzi delle onde rifrante. E appena sbarcato
l'impressione di posticcio aumentò e la sensazione di beccheggio
lo seguì anche sulla terraferma. L'isola sembrava incollata al
mare, appoggiata di peso sull'acqua, con la riva ritagliata,
senza fondo e senza spessore. Era come stare su una piattaforma
galleggiante ancorata lì per essere inclusa nell'arcipelago
famoso per le vacanze. Da qualche parte doveva esserci un gancio
per rimorchiarla in un altro mare. Mentre il pescatore scaricava
i bagagli si guardò intorno. L'isola era grande poco più di uno
scoglio, completamente piatta, priva di rilievi: se non ci fosse
stata quella macchia di palme altissime al centro si sarebbe
potuto scorgere l'altro versante. In mezzo alle palme un bungalow
costruito con legno di cocco e corallo bianco. Vi si diresse
seguito dal pescatore con i bagagli: la porta era solo socchiusa
e si aprì scoprendo un arredamento di tipo coloniale, sobrio ma
essenziale: un letto, un tavolo, delle sedie, un cucinino e un
bagno: tutto in legno, canna o bambù. Sempre sulla porta salutò
il pescatore, prese accordi per il ritorno e senza nemmeno
guardarlo partire si dispose ad aprire i bagagli. Prima il
borsone con i vestiti che riversò disordinatamente sul letto,
poi lo scatolone con le provviste che non aprì nemmeno, e...la
scatola con i libri e il materiale per scrivere? Guardò bene
dentro il bungalow, vi girò attorno, corse fino alla spiaggia
d'approdo: niente. Nessuna traccia. Si passò una mano sulla
faccia stropicciandosi gli occhi, emise un lungo respiro per
riprendere fiato e tornò di nuovo verso il bungalow. La scatola
non c'era: o non era stata scaricata o non era stata nemmeno
caricata. Corse di nuovo verso la spiaggia per fermare il
pescatore ma era troppo tardi. Si sedette sulla riva, la testa
tra le mani, in preda allo sconforto. Non era possibile,
non poteva essere vero, soprattutto non era sostenibile. Nemmeno
il più grande scrittore poteva rendere credibile una storia
del genere. A chi poteva venire in mente una idea così banale,
chi poteva ideare un colpo di scena così scontato, su chi
avrebbe fatto presa? Doveva assolutamente trovare la scatola, non
poteva lasciarsi travolgere così dall'insipienza del caso, dalla
banalità della vita, dalla stupidità della realtà. Si alzò e
si avviò verso l'interno cercando di sgombrare la mente
dall'angoscia che stava sopravvenendo. Si sedette su un tronco
d'albero e ripassò a mente il contenuto della cassa. Dunque, si
era portato almeno 4 penne stilografiche: la Omas Gentleman (che
gli ricordava tanto Pitigrilli), sicuramente, poi, quella senza
marca comprata in una cartoleria di Genova per pochi soldi
(scriveva fino ma chiaro), la Montblanc gigante (scrittura bella
e importante), la Parker a cartucce (pennino duro ma incisivo).
Varie penne a biro, pennarelli di diverso colore e spessore, un
pacco di matite di tratto diverso, 2 pacchi di carta extratrong,
blocchi di vario tipo, 1 quaderno di copisteria di grande formato
(aveva deciso che era arrivato il momento di usare quello
comprato nella "papeterie" di Parigi consigliata da
Eco), la macchina per scrivere le poesie (così chiamava la sua
gloriosa Lettera 32 acquistata a 18 anni facendo la cresta sugli
incassi delle feste studentesche). L'inventario dei materiali
finiva qui, ma infinita era la gamma di applicazioni che ciascun
tipo di materiale avrebbe favorito: attraversò con la mente il
ventaglio di possibilità che aveva presieduto alla scelta dei
diversi strumenti. Non tutto si può scrivere con tutto.
Con la stilografica non si scrive, si firma, si consacra, si
suggella. La stilografica non ammette ripensamenti: le
cancellature sono orribili, macchiano, sporcano, dilatano
l'errore attirando l'attenzione, non lo coprono mai
perfettamente, facendo comunque intravedere l'intenzione erronea.
Sarà per questo che è lo strumento principe di notai e avvocati
per i quali anche le cancellature sono significanti. E non
ammette neanche le pause. Interruzioni troppo lunghe, dubbi
irrisolvibili, incertezze paralizzanti fanno essiccare il flusso
d'inchiostro e costringono al momento della ripresa a defatiganti
scrollate, colpetti, pompaggi per far affluire l'inchiostro verso
la punta. E poi è inaffidabile: per quanto previdenti si rimane
sempre senza inchiostro, senza cartucce di ricambio: per non
parlare di quelle a stantuffo, che si caricano solo con il
calamaio, le più care. No, la stilografica è uno strumento da
scrivania, da scrittore sedentario, da poeta a tavolino. La
penna biro: la più disistimata eppure la più efficiente, la
più disponibile, sempre pronta all'uso, sempre carica. Una biro
si getta sempre via prima che si esaurisca, quando avrebbe ancora
molto da dire. La biro è sempre all'altezza del compito: il suo
tratto non si sovrappone mai alla scrittura, anzi vi si annulla:
la scrittura vale intrinsecamente per quello che è come un libro
in edizione economica. I pennarelli enfatizzano,
ingrossano, sottolineano, appesantiscono. Indicati per scritte in
stampatello, frasi brevi, proclami, avvisi, cartelli, titoli. Con
il loro tratto che a prima vista sembra facilitare la lettura ma
che alla lunga fa venire il fiatone o la voce roca. Un lungo
periodo scritto con i pennarelli diventa illeggibile: le parole
si confondono, i segni alfabetici si trasformano in figure, la
calligrafia si omogeneizza. La matita, infine: lo strumento
più umile, provvisorio, caduco, l'unico che si mette in
gioco, che si versa tutto nella scrittura, si dà, si consuma. E,
anche, l'unico che si lascia annullare senza lasciare tracce, che
si dissolve nella cancellatura, che non ha pretese di durata. Per
questo, forse, è impiegata per scritti volanti, d'occasione, per
appunti, note a margine, correzioni, segnalazioni. Il grado zero
della scrittura. Insomma, un armamentario completo con cui
avrebbe potuto scrivere di tutto, che avrebbe usato solo in
minima parte ma senza poterla stabilire in anticipo: sarebbe
stata la scrittura a scegliersi al momento e sul posto gli
strumenti giusti. E se fosse andata proprio così, se la
scrittura avesse scelto essa stessa il nulla, il vuoto, l'afasia?
Se avesse smesso di scegliere per lui? Un altro esercizio
mentale che lo aiutò a superare l'impasse consisteva
nell'immaginare come sarebbero state le sue giornate sull'isola
senza quel disguido. Dunque, appena arrivato avrebbe fatto una
breve ricognizione dell'isola, cominciando a scegliere con lo
sguardo i luoghi delle sue giornate, poi avrebbe personalizzato
la capanna con le cose che si era portato, avrebbe sistemato
tutto nell'ordine meticoloso che solo lui conosceva, avrebbe
predisposto la cornice giusta per cominciare a scrivere,
piazzando l'occorrente nei vari punti strategici che aveva già
individuato, cambiando più volte gli abbinamenti, quel blocco a
righe con la penna col pennino duro, la carta più morbida con la
ritrosa Omas, la macchina da scrivere sarebbe passata dal tavolo
al comodino, dal comodino al letto, dal letto al pavimento, visto
che le prime pagine le scriveva sempre a mano... Si vedeva mentre
organizzava sul terreno di battaglia le sue postazioni, mentre
aspettava al varco l'ispirazione, stilografica in pugno, il
cappuccio sfilato, il pennino puntato sul foglio, attento a non
far seccare la punta, pronto in ogni momento a immobilizzarla con
getti d'inchiostro. Eccolo dopo lunghi periodi di vana attesa
cambiare strategia, sfidarla in campo aperto, ad armi pari, con
il foglio innestato nel carrello della macchina per scrivere, le
dita leggere sui tasti, pronte a scattare al primo segnale, a
sparare raffiche di battute. Ed eccolo adottare la tecnica
dell'agguato: attirarla in un'imboscata, apparentemente disarmato
e distratto, lontano dalla sua postazione, farsi cogliere alle
spalle, concedere il vantaggio della sorpresa. Ma non
sarebbe successo nulla: dopo qualche falso allarme che avrebbe
prodotto solo scarabocchi, avrebbe attenuato la vigilanza,
avrebbe cercato un diversivo, avrebbe abbandonato prima per poco
tempo poi per periodi sempre più lunghi le sue postazioni,
avrebbe trovato qualcos'altro da fare, all'inizio per scaricare
la tensione accumulata, poi per far decantare la situazione fino
a dimenticarla del tutto, fino a lasciarsi prendere da
un'occupazione qualsiasi che perì gli avrebbe procurato
angoscia, rimorso per il tempo perduto, senso di colpa.
Pensò a questo e per un attimo si sorprese ad invidiare la
situazione, a benedire il disguido della cassa smarrita, ma
subito sentì affiorare il rimpianto per l'abbondanza dei mezzi
che aveva lasciato, le dozzine di penne inutilizzate sul suo
tavolo, le macchine da scrivere e il computer che ticchettavano
il nulla, sentì riemergere lo scarto tra i mezzi e i fini, che
spaccava la sua vita sovradimensionata. Ah, se si fosse
esercitato a dosare le risorse, a mettere da parte, a
risparmiare, se avesse usato gli oggetti e gli strumenti al
massimo delle loro capacità, se non avesse sprecato tanto
inchiostro, tanta carta, tanto talento. Certo, poteva sempre
usare la radio e farsi portare la sua cassa o al limite un po' di
materiale per poter scrivere, ma questo implicava la necessità
di scrivere, non il desiderio di farlo. Far venire appositamente
una motobarca sarebbe stato giustificato da una effettiva
urgenza, da una situazione di emergenza. No, si disse, meglio
soprassedere, meglio aspettare. Scrivere, scrivere, scrivere,
doveva scrivere. Nonostante tutto sentiva che la scrittura era
l'unico legame reale con quell'isola di cartapesta, la sua
zattera di salvataggio, la sua palma di naufrago da barzelletta
Una mattina, di buon'ora, quando ormai
cominciava a rassegnarsi a quell'esilio forzato, una sensazione
strana, sconosciuta, indefinibile, gli sorse nella mente, si
sporse dalla fronte, gli cadde davanti agli occhi, e si
materializzò. Accadde tutto in un attimo, in piena luce,
naturalmente, senza timidezze, ma anche senza trasalimenti, senza
sorprese. Lo scrittore non riuscì a riconoscerla, se non in
negativo, per ciò che non era: non era ispirazione, o ciò che
passa sotto questo nome, non era una sensazione astratta,
leggera, diafana, senza spessore e senza peso. Era, al contrario,
una voglia corposa, tangibile, fisica, consistente, che poteva
toccare con mano, accarezzare, saggiarne la consistenza e la
foggia. Sì, era una voglia così forte, così intensa, così
pregnante che quasi lo spaventò. Ma più la metteva in dubbio,
più questa si affermava, più la sottovalutava più era
costretto a riconoscerne il valore, più la soffocava più essa
riemergeva da un'altra parte con più vigore. E appena la
assecondava solo un po' ecco che una sensazione di leggerezza e
di euforia si impossessava di lui. Sì, doveva riconoscerla: era
una vera, piena, autentica voglia di scrivere. La voglia di
scrivere: furiosamente, di getto, senza dubbi, senza
ripensamenti, senza domande. Lasciarsi andare, farsi guidare dal
proprio riflesso sfalsato. Cogliersi appieno in quest'altro,
sorprendersi con un sorriso inatteso sulle labbra, con gli occhi
lucidi di commozione... E poi improvvisamente chiamarsi fuori,
porsi all'esterno, lo sguardo corrucciato e diffidente, ritornare
sul già fatto, pesarlo, valutarlo, rivedere, correggere,
riscrivere, smarrire per un attimo il senso profondo e poi
miracolosamente ritrovarlo rafforzato, riprendere il filo.
La voglia di scrivere: la voglia di vivere. Una vita senza
l'arbitrio del caso, senza la violenza dell'incoscienza, senza la
rassegnazione del dato. Trasformare le persone in personaggi, i
fatti in azioni, i sentimenti in stili, la vita in scrittura. Una
vita senza refusi, precisa e compatta, formattata dalla prima
all'ultima riga, senza una parola fuori posto, senza una virgola
sbagliata. La voglia di scrivere: l'io si affaccia sul
bordo della realtà, si sporge troppo, si spaventa, rischia di
perdere l'equilibrio, di precipitare, si aggrappa a una
sporgenza, riesce a salvarsi, si ritrae, si appoggia con la
schiena alla parete, chiude gli occhi, riprende fiato, poi
timidamente torna a sporgersi, attento questa volta a non farsi
troppo avanti ché sarebbe risucchiato, ma nemmeno troppo
indietro ché non vedrebbe nulla. La voglia di scrivere:
l'ansia di ritrovare un brandello di verità nell'accostamento di
due parole, di restituire il ritmo nascosto di un evento in un
giro di frase, di toccare con mano la materia con cui sono
impastate le parole, di sottrarre isole e scogli di senso alle
mareggiate del parlare comune che tutto sommerge. La voglia
di scrivere. La vita sospesa, vissuta in parte, per un quarto o a
metà, giusto quel poco che serve per costruire una biografia,
per incattivirsi, per produrre ricordi e rimpianti e delusioni e
sogni, materiali grezzi da elaborare. Solo che la somma non viene
mai, mai le due parti coincidono e tanto la voglia di scrivere
cresce tanto la vita si ritrae in se stessa. Così alla fine non
rimane più niente su cui scrivere, solo la scrittura che finge
di parlare di qualcos'altro da sé.
L'aveva visto fare una volta ad un famoso
pubblicitario: ad un convegno sulla creatività in cui erano
entrambi relatori un copywriter di grido prendeva appunti con un
mozzicone di matita mangiucchiata, non più lunga di una
sigaretta. L'aveva subito classificato come un vezzo: di grande
effetto, però, soprattutto su di sé, che, al contrario, era un
patito delle penne stilografiche, di quelle care e di marca. Un
vezzo anche questo, lo sapeva, ma di minor impatto perché la
stilografica faceva parte di un cliché che non stupiva nessuno.
Così decise di imitare il pubblicitario: trovò in fondo a un
portapenne una matita rovinata, gli fece la punta e se la mise in
tasca. Prima di stancarsi di questo vezzo e di dimenticarla da
qualche parte fece in tempo ad usarla pochissimo: una volta in
una libreria un lettore che l'aveva riconosciuto gli chiese di
firmare una copia del suo libro ma quando lo vide estrarre dal
taschino la matita, lo fermò e gli offrì quasi commiserandolo
la sua biro a scatto. Ritrovare ora quello stesso mozzicone
di matita nel taschino di una camicia che per fortuna aveva
inserito nel suo guardaroba vacanziero, rigirarselo tra le mani,
osservarlo come una reliquia lo rese insieme felice e incredulo.
La sorte gli aveva riservato un colpo di scena miracoloso e
beffardo, scontato e risolutore, banale e ambiguo, benefico e
mortificante. Non riuscì a trattenere una risata di
commiserazione mentre pensava alla sua grande, ritrovata voglia
di scrivere costretta a fare i conti con lo strumento più
rudimentale, più approssimativo, più fragile, più delebile,
più insicuro. Ma il solo pensiero di non dover affrontare
l'editore con la storia del disguido gli sollevò il morale e lo
predispose ad affrontare meglio i disagi strumentali. Cominciò
subito ad organizzarsi: come carta avrebbe usato le confezioni
che avvolgevano i cibi: scatole di pasta, di biscotti, di
bevande, di pancarrè. Una volta aperte, rivoltate e piegate per
bene rivelavano nel verso un buon cartoncino a volte grigio, a
volte bianco sul quale era abbastanza agevole scrivere. Peccato
che il recto fosse tutto occupato da sgargianti marchi a colori,
scritte cubitali, avvertenze, istruzioni per l'uso, flash
promozionali ed era praticamente inutilizzabile. A parte questo,
la carta non costituiva un problema: di provviste alimentari ne
aveva in abbondanza e bastava prenderla nel verso giusto.
Il problema tecnico invece era la matita: la sua durata, la sua
affidabilità, le sue prestazioni, la sua manutenzione. Doveva
amministrarla con saggezza, al limite delle sue possibilità, ma
senza strafare, doveva tenerla con cura, appuntirla in modo che
il tratto risultasse sempre sottile, consumasse al minimo la
mina, non calcare la mano, non tracciare segni bruschi che
potevano spezzare la punta. Pensò anche di ricorrere a un
linguaggio simbolico, una specie di stenografia, un sistema di
abbreviazioni, ad eliminare la punteggiatura, e tutti gli altri
segni inutili al di fuori di un contesto tipografico, i puntini
sulle i, gli accenti, gli apostrofi, le virgolette, ridurre la
grafia ai tratti essenziali, evitare ghirigori inutili,
rotondità calligrafiche, abbreviare le parole, almeno quelle che
ricorrono più spesso e di cui è noto il significato, ma lo
scartò subito: la scrittura è un intreccio di senso, non una
scaletta di appunti, se le parole non sono tutte lì, nella
giusta successione e consistenza, non c'è scrittura. Doveva
cambiare anche il suo modo di scrivere: anche la scrittura doveva
in qualche modo proporzionarsi, rapportare mezzi e fini,
coniugare grafia e scrittura, ispirazione e realizzazione,
creatività e tecnica. Scrivere per sottrazione, togliere senso,
spogliare le parole, ridurle al minimo, usarle al di sotto delle
loro possibilità, fermarsi sulla soglia dei significati: sì,
non poteva scrivere di getto, furiosamente, senza riflettere. Non
poteva permettersi il lusso di cancellare, di cambiare, di
riscrivere. Non poteva dar forma a tutto quello che gli veniva in
mente, non poteva rischiare di restare senza matita quando gli
sarebbe venuta in mente un'idea più bella, non poteva lasciare
che fosse il caso a decidere per lui, non doveva sacrificare
all'idea di oggi quella di domani. Quando ebbe risolto tutti i
problemi tecnici, solo allora cominciò a scrivere. La leggerezza
del tratto faceva tutt'uno con la leggerezza del pensiero, la
facilità di scrittura era totale, letterale. Non aveva dubbi,
ripensamenti, paure. Scriveva a ondate regolari, lunghi periodi,
blocchi interi che duravano quanto la punta della matita. Si
interrompeva ogni tanto per sgranchirsi le dita indolenzite o per
rifare la punta. E subito riprendeva senza intoppi, senza che
nemmeno per un attimo smarrisse il filo. Man mano che la punta si
consumava il tratto si ingrossava e allora doveva alleggerire la
pressione della matita sul foglio in modo da non consumare troppa
mina e nello stesso tempo sfruttare al massimo la durata della
punta: così la scrittura diventava meno incisa più il tratto si
ingrossava. Calcolò che con una punta riusciva a riempire una
facciata, un intero pezzo di cartone, di quelli lisci e levigati
sui quali la matita scorreva leggera e sottile. Un po' meno con i
cartoni ruvidi e increspati che assorbivano molto e lo
costringevano a calcare di più la mano. L'operazione più
delicata era l'appuntimento della matita per mezzo di un coltello
da scout: doveva stare attento a spogliare la mina di non più di
mezzo centimetro, né troppo corta ché sarebbe durata
poco, né troppo lunga ché si sarebbe spezzata con
facilità. Un altro problema erano le dita che dopo un po'
cominciarono a dolergli a causa della strettissima presa che fu
costretto ad adottare per ottenere dalla matita un'andatura
regolare e precisa: il dolore divenne insopportabile quando gli
si riformò il callo dello scrivano sul dito medio. Nei rari
momenti di riposo non abbandonava mai la matita: passeggiando la
teneva tra le dita, come una sigaretta, o penzolante tra le
labbra, ora nel taschino della camicia che la mano correva a
tastare per accertarne la presenza. La notte, prima di coricarsi,
la metteva nel posacenere e la mattina il suo primo gesto era di
riprenderla. Quando il mozzicone si ridusse ad una cicca
smise di scrivere e passò un'intera giornata a costruire con una
canna di bambù un porta-lapis sufficientemente lungo e cavo ad
una estremità dove infilava il mozzicone di matita. Con il
filtro, anche la sua scrittura cambiò: da pressata come era,
troppo vicina ai fatti, si fece più leggera, più distaccata. Il
tratto si alleggerì senza perdere incisività e questo gli
consentì intervalli di scrittura più lunghi, periodi più ampi:
la punta durava di più: segnava appena il foglio, lo
accarezzava. Approfittava delle pause per preparare il materiale:
faceva la punta alla matita, puliva il portamatita, ritagliava e
stendeva uno sull'altro i pezzi di cartone dividendoli in tanti
mucchi secondo lo spessore, il colore del fondo, il peso. Anche
la sua dieta seguiva le esigenze della scrittura: di tutte le
provviste mangiò solo le cose contenute in confezioni adatte ad
essere riutilizzate. Un unico pensiero lo tormentava mentre
riempiva uno dopo l'altro, con la sua grafia sottile,
semplificata ed essenziale i pezzi di cartone: quanti segni,
quante parole, quante frasi, quante pagine, quanti capitoli
c'erano ancora nella matita? La risposta venne
da sola: il libro era tutto contenuto nella matita, il libro era
la matita. Nel giorno stabilito per il ritorno il pescatore
tornò sull'isola e sorprese lo scrittore nel bungalow, sdraiato
per terra, intento a graffiare la carta con la poca matita che
gli era rimasta: solo un pezzo di mina nudo, non più lungo di
un'unghia, avvolto in un batuffolo d'ovatta arancione che rendeva
più morbida e sicura la presa delle dita. Gli mancavano poche
righe alla fine: la matita ormai non esisteva quasi più, era
tutta nei pezzi di cartone. Il pescatore lo aiutò a radunare la
poca roba che aveva tirato fuori dalla valigia, mentre lui
raccoglieva tutti i pezzi di carta disseminati qua e là. Il
pescatore non capiva perché lo scrittore s'era divertito
ad aprire tutte le confezioni e a piegarle per bene di piatto.
Raccolse un pezzo per terra e lo osservò incuriosito: era un bel
cartoncino duro e liscio, di buona qualità, ricoperto
completamente da una scrittura fitta e sottile. Lo scrittore glie
lo tolse dalle mani e lo depose insieme agli altri in uno
scatolone. Prima di sigillarlo con cura si guardò ancora intorno
per accertarsi di averli raccolti tutti. Il viaggio di
ritorno fu più leggero e più felice: anche ora lo scrittore si
guardò indietro e il pensiero di tornarvi, di fissarsi bene ie i luoghi e i riferimenti non erano dettati dall'angoscia ma
dalla liberazione. All'aeroporto di M. ritrovò anche lo
scatolone smarrito: una hostess della compagnia aerea si scuso
per il disguido e per i disagi pescando nel suo repertorio di
frasi fatte che non ammettevano contraddittori. Lo scrittore
assentì e dichiarò che si trattava di cose deperibili, non
pi ricuperabili e firmò una liberatoria. Si avviò verso
la sala d'imbarco gettando un'ultima occhiata allo scatolone che
giaceva ancora intatto, con le etichette attaccate, pieno di
risorse, vuoto di significati, inutile reperto della sua vita
passata. All'arrivo in aeroporto non trovò nessuno ad
aspettarlo. Evidentemente il pacchetto-vacanze finiva lì: per
lui invece se ne apriva un altro, ancora da scoprire. Una volta
tanto si trovò a pensare a quello che poteva essere e non era
senza rimpianti, anzi con sollievo: il sollievo di immaginare uno
scenario diverso della sua vita che non era più bello o più
desiderabile di quello reale, ma solo diverso, che non
apparteneva al suo futuro, ma al suo passato. Un sogno ad occhi
aperti regressivo, in cui si lasciò andare totalmente, a corpo
libero, per tutto il tempo che durò l'attesa dei bagagli davanti
al nastro. Una sensazione che quando finì gli lasciò in bocca
un sapore dolce e preciso che egli poteva riassaporare a
piacimento quando voleva poiché era in grado di replicarla
all'infinito: davanti a sé aveva tanti scenari veri che si
sarebbero realizzati e sotto altrettanti che poteva solo
immaginare al passato, all'indietro. Il primo scenario, il più
immediato era la consegna del manoscritto.
Il mattino dopo l'editore trovò sul suo
tavolo un pacco. Dalle etichette e dai bolli di spedizione
dell'aeroporto capì che a mandarlo era lo scrittore. Lo
sollevò: era troppo grande e troppo leggero per un manoscritto.
Il contenitore era più adatto a un souvenir dell'isola, un
manufatto indigeno, una statuetta di legno intagliata a mano.
Mentre si disponeva ad aprirlo giurò che qualunque cosa ci fosse
stata dentro, lo scrittore non se la sarebbe cavata così a buon
mercato. Ma quando lo aprì dovette confessare che questa volta
era riuscito a sorprenderlo. Prima di farsi travolgere
dall'euforia afferrò una manciata di cartoncini e li sfogliò
come si fa con un mazzo di carte per contare i punti e controllò
se erano tutti scritti, poi con una mano sotto e una sopra li
sollevò per valutarne il numero e la quantità: se ne poteva
ricavare un libro di almeno 160 pagine. Chiese alla segretaria di
chiamare lo scrittore, voleva festeggiarlo, congratularsi,
prendere accordi per l'edizione. Ma lo scrittore era scomparso:
appena arrivato aveva fatto perdere le sue tracce. Fece chiamare
il redattore anziano che aveva curato il primo libro dello
scrittore e con gli occhi che gli brillavano gli disse di farlo
trascrivere immediatamente, senza gettare gli originali, per i
quali aveva già un'idea. Precedenza assoluta. Il vecchio
redattore non voleva credere ai suoi occhi. Nella sua lunga
carriera gli erano capitati davanti manoscritti di tutti i tipi:
quaderni di scuola a righe o a quadretti riempiti con una grafia
fitta dalla prima allultima pagina, ogni pagina compatta e
uniforme, in cui la lunghezza dell'opera era calcolata
perfettamente sulla quantità di fogli a disposizione; fogli
sparsi pieni di correzioni e di rimandi ad altri fogli
introvabili, pezzi tagliati con le forbici e riattaccati in testa
ad altri fogli; dattiloscritti rilegati a mo' di tesi di laurea
con la loro bella copertina in similpelle e il titolo
sovrascritto in oro; tabulati scritti con stampanti ad aghi in
caratteri formati da tanti piccoli puntini che a fissarli si
sgranavano e diventavano illeggibili, di tutto insomma, ma questa
volta si era proprio passato il segno. La prima reazione fu di
declinare l'incarico: i suoi occhi erano troppo stanchi per
appoggiarli su quei pezzi di cartone. Fabbricava libri da troppo
tempo, praticamente dalla nascita della casa editrice. Era ormai
un'istituzione là dentro: un'istituzione vecchia, svuotata di
significato, che tutti riconoscevano ma che nessuno rispettava
veramente. Faceva un lavoro troppo oscuro per attirare
l'attenzione. Era stata una sua scelta: per fare i libri degli
altri aveva rinunciato a scrivere i propri. Poi, con il passare
del tempo, era diventata una questione morale e una posizione
inattaccabile: non scrivere era il suo vero punto di forza.
Detestava quelli che passavano dall'altra parte, i giovani
redattori che appena conquistavano un po' di spazio si facevano
prendere dalla fregola di scrivere per sé, di pubblicare con il
proprio nome, di firmare, come un creatore di moda o di profumi.
Tutti quei discorsi sulla fine del romanzo, sulla crisi della
scrittura, lo facevano ridere. La vera crisi era nella scomparsa
dei redattori come lui e nell'arrivo dei giovani editors, figli
di scrittori e di giornalisti, parcheggiati in casa editrice in
attesa di un posto di addetto alle relazioni pubbliche presso
qualche ente pubblico o qualche multinazionale. Giovani senza
mestiere, senza passione, senza umiltà
, cresciuti
all'ombra dei padri famosi. Ma ormai erano tutti così gli
scrittori nuovi, tutti così i libri che era costretto ad
editare: senza vita, senza forza, senza sangue. E adesso
gli toccava anche fare il paleografo. Prese uno di quei
cartoncini e cominciò a leggerlo: strizzò gli occhi per leggere
meglio ed ebbe un sussulto. Lo depose dolcemente sulla scrivania,
chiuse a chiave la porta dell'ufficio, staccò il telefono,
poggiò il pacco su un tavolinetto accanto alla poltrona in modo
da potervi attingere con facilità, sgombrò la scrivania e
riprese a leggere: prendeva i cartoncini, li leggeva velocemente
ma attentamente e uno dopo l'altro li deponeva in bell'ordine sul
tavolo. Erano anni che non gli succedeva e ora mentre scorreva
quelle righe scritte a fatica su dei pezzi di cartone provò
sbalordimento, meraviglia, trasalimento, emozione: in una parola,
commozione. Si sentì riportare indietro di 40 anni, quando i
libri erano pezzi di vita, quando la vita era anche un libro
stampato. Lo lesse tutto d'un fiato, senza mai staccare gli occhi
dai cartoncini. Quando ebbe finito di leggere restò un attimo
senza respiro, poi lentamente si riprese e cominciò a chiedersi
cosa farne. Prima di tutto divise i pezzi di cartone in tanti
mucchi, li ordinò e li dispose a formare pagine, capitoli,
parti, ma i cartoncini si ribellavano a qualsiasi ordinamento,
ognuno poteva essere l'inizio o la fine o il centro del libro,
ogni frase era un attacco e un finale, la scrittura aveva una
circolarità
assoluta: ogni brano poteva stare da solo o
insieme agli altri. Per quanti sforzi facesse non riusciva a
ingabbiarlo in un libro, in una sequenza di pagine, in un formato
di stampa. Meglio lasciarlo così com'era, libero e grande. Di
libri ne aveva fatti anche troppi. Il suo ufficio si
trovava proprio vicino alla porta d'ingresso: lo aveva scelto lui
stesso quando la casa editrice si era trasferita nel nuovo
palazzo, più grande e accogliente, per far più presto ad
andarsene, celiava con l'editore. E invece era sempre l'ultimo ad
uscire la sera e sempre il primo ad arrivare la mattina: da
quella sua posizione aveva visto passare generazioni e
generazioni di autori, di redattori, di mercanti; aveva visto
nascere e crescere la casa editrice; l'aveva vista diventare
ditta, azienda, società
per azioni, merce di scambio;
aveva visto andar via uno dopo l'altro gli uomini che l'avevano
creata insieme a lui e all'editore; aveva visto la stanza
dell'editore farsi sempre più grande, più vuota, più lontana.
Nessuno si meravigliò quindi se anche quella sera si trattenne
fino a tardi: gli bastò tenere la porta socchiusa e salutare uno
dopo l'altro impiegati e redattori che uscivano. Quando fu solo
raccolse gli effetti personali: poche cose perché la sua
vita si era identificata tutta con quella della casa editrice e
avrebbe dovuto portar via tutto, o niente. Il manoscritto dello
scrittore, invece, gli apparteneva, gli spettava: era stato lo
scrittore, con la sua scomparsa, ad affidargli questo messaggio
nella bottiglia ed era stato lui a raccoglierlo e ora lo avrebbe
conservato e tenuto lontano da tutti. Lentamente, con cura,
rimise a posto tutti pezzi di cartone, li avvolse con lo skotch e
uscì con il pacco sotto il braccio spegnendo per l'ultima volta,
una per una, le luci lasciate accese nelle stanze.
Divenne lo stesso un libro, anzi, di più, un evento. L'editore non si lasciò abbattere dalla scomparsa del redattore con il manoscritto, chiamò un gruppo di giovani editors e li incaricò di dar vita a un evento editoriale, di annunciare un libro che non esisteva, di parlare e di far parlare di un capolavoro annunciato. Lo scopo era di trasformare un punto debole in un punto di forza: visto che nessuno conosceva il contenuto del manoscritto e che solo lui l'aveva "visto" decise di puntare sulle condizioni esterne che l'avevano prodotto: la crisi dello scrittore, il viaggio rigenerante, la penuria dei mezzi, l'esplosione creativa, il miracolo della matita e del cartone. Il libro sarebbe uscito nella collana principale della casa editrice, con il titolo "Il mozzicone di matita", in copertina ci sarebbe andata la riproduzione fotografica di un pezzo di cartone usato dallo scrittore, uno scritto anche nel recto, in cui la grafia attraversava e circondava il marchio di una pasta che avrebbe sponsorizzato l'edizione. Nel retro la riproduzione sgranata del verso del pezzo di cartone: la grafia ingrandita e stampata con un retino largo per consentire la sovrimpressione della presentazione scritta direttamente dall'editore in cui avrebbe ricostruito nei minimi particolari la genesi del libro, la storia del mozzicone di matita e via drammatizzando. Per Natale (a questo pensava quando disse al vecchio redattore di non gettare gli originali) avrebbe sfornato una edizione anastatica del manoscritto con le riproduzioni di tutti i folii (e di tutti i marchi delle confezioni) su carta di lusso, foto a colori dell'isola, piante, cartine, analisi grafologiche: tutta sponsorizzata dalle marche presenti nel manoscritto. L'attenzione venne indirizzata sull'evento che aveva dato vita al libro: la storia del mozzicone di matita fu riempita di significati, ricoperta di implicazioni. L'editore fece scendere in campo tutte le forze di cui disponeva: giornalisti, esperti, studiosi, pubblicitari. Uno psicanalista si spinse sulla prima pagina di un quotidiano ad una lettura erotica: il mozzicone come simbolo fallico, la scrittura come amplesso, la matita che si consuma poco a poco, l'uomo che perde la sua potenza sessuale, il suo membro si riduce a un mozzicone. I semiologi esaltarono la metafora della matita e lodarono lo scrittore che aveva elevato a pretesto narrativo un tema così difficile e complesso come la crisi della scrittura. I periodici di viaggi e turismo si tuffarono sull'evento e lo amplificarono e lo magnificarono suggerendo percorsi, isole e mari dove ripetere quell'esperienza. La televisione imbastì una trasmissione speciale con la partecipazione di scrittori, editori, grafologi, che discutevano dai rispettivi punti vista il tema della scrittura, mentre una valletta provava a scrivere in diretta con un mozzicone di matita identico a quello dello scrittore per misurarne la capacità e la durata. I giornali femminili prima si tennero in disparte perché nel libro e nell'evento non vi erano tracce di donne, poi vi entrarono con foga per non perdere l'occasione e vi imbastirono sopra un'interpretazione al femminile: l'isola come una donna, il mozzicone come arma spuntata che non ferisce. I post-moderni, infine, vi costruirono sopra il loro trionfo: il libro non esisteva più, era nato il libro-evento. La campagna promozionale ebbe anche delle ripercussioni sul piano del costume letterario. Agli editori cominciarono ad arrivare plichi di tutti i generi e in tutti i formati: romanzi epistolari-amorosi scritti con penne d'oca; romanzi storici tracciati su tavolette cerate; poemi vergati su papiri di pergamena; videocassette con l'autore che descrive in diretta la sua opera raccontandola davanti alla telecamera; floppy disk occupati da saggi sull'intelligenza artificiale; una collezione completa di minerva SAFFA della serie "Animali in estinzione" con l'interno occupato da aforismi filosofici. Del libro in sé, di cosa poteva esserci scritto, nessuno si occupò. L'attenzione generale si appuntò sul "con che cosa era stato scritto". A questo punto il cerchio dell'evento si chiudeva perfettamente: se il manoscritto non fosse mai stato ritrovato, l'editore poteva stampare qualsiasi testo sotto quel titolo. Il libro esisteva già per suo conto. Mancava solo l'autore.
Ma lo scrittore era ancora introvabile.
"Il mozzicone di matita", se fosse mai uscito, per lui
sarebbe stato come un libro postumo: ora era solo un libro
mancato. La sua assenza perì rendeva meno plausibile la
scomparsa del manoscritto e l'editore cercò di rimediare con
false interviste, dichiarazioni indignate ai giornali, denunce e
interventi che potevano far lievitare l'attenzione intorno al
libro mancato, stuzzicare la curiosità, aumentare l'attesa. Alle
pagine culturali di quotidiani e riviste furono gettati in pasto
il pescatore che lo aveva trasportato sull'isola, l'agenzia di
viaggi che aveva organizzato il soggiorno sull'isola deserta, un
turista tedesco che sedeva a fianco dello scrittore sull'aereo
nel viaggio di ritorno. Certo, un'assenza troppo prolungata dello
scrittore e il mancato ritrovamento del manoscritto avrebbero
finito col togliere credibilità a tutta l'operazione, avrebbero
alimentato i dubbi e i sospetti, avrebbero rafforzato le accuse
di quei pochi che avevano subito gridato al falso, all'evento
editoriale, alla mancanza di scrupoli dell'industria culturale
che aveva studiato a tavolino un'operazione puramente
commerciale. E infatti a poco a poco cominciarono a circolare una
ridda di voci, di si dice, di rivelazioni, di annunci, che sulle
prime l'editore tentò di smentire, precisare, puntualizzare, ma
poi vista la velocità con cui si susseguivano, la rapidità con
cui entravano in auge e decadevano, decise di ignorare. Erano
voci tanto cervellotiche quanto contradditorie: volevano essere
esaustive e invece erano caduche, si annunciavano definitive e
finivano provvisorie, volevano dir tutto sullo scrittore e alla
fine parlavano più e meglio di se stesse e di chi le metteva in
circolazione e di chi le diffondeva... Lo scrittore era
tornato sull'isola: questa volta solo per riposarsi e si era
ricordato di dimenticare anche i mozziconi di matita, ma, appena
messo piede sull'isola, puntualmente gli era di nuovo scoppiata
dentro la voglia di scrivere, costringendolo a scrivere sulla
sabbia con un bastone di legno. L'impresa stavolta si annunciava
più ardua perché l'opera doveva essere finita prima
dell'arrivo dell'alta marea che avrebbe cancellato tutto.
L'editore, nel frattempo, per precauzione, stava organizzando una
ripresa fotografica aerea ma il costo della trascrizione stentava
ad essere coperto dagli sponsor. Una variante apocalittica lo
descriveva intento a scrivere sull'acqua, a tracciare segni che
il mare subito inghiottiva... Lo scrittore aveva trovato
una vena inesauribile a cui attingeva scrivendo romanzi e
racconti a getto continuo che mandava sotto falso nome alle
maggiori case editrici che, tanto, non glieli pubblicavano. Una
voce opposta attribuiva invece allo scrittore la decisione di non
pubblicare più nulla. Dopo l'esperienza del mozzicone di matita
aveva ripreso la sua vita normale e continuava a scrivere ma
senza pubblicare. Era arrivato alla convinzione che non si scrive
per pubblicare, che prima si scrive e poi, eventualmente, si
pubblica, perché se era vero che non tutto ciò che si
scrive si può pubblicare allora era anche vero che non tutto si
deve pubblicare, che la pubblicazione solo un processo di
diffusione delle idee e non un momento fondativo o addirittura
costitutivo dell'atto di scrivere. Così aveva deciso di
pubblicare in proprio, in tirature limitatitissime e mirate a un
numero di lettori selezionatissimi e conosciuti. Lo scrittore
aveva individuato l'esatto numero di lettori sui quali ciascun
autore (e lui in particolare) poteva contare: 2455. Sì, proprio
2455, sparsi in tutto il mondo che leggevano i suoi libri. Lo
scrittore propendeva per l'idea che ciascun autore aveva i
"suoi" lettori, con un minimo di sovrapposizione e di
scarto e così, a scanso di equivoci, il suo universo di lettori
lo sceglieva da sé. Una volta tanto non erano i lettori a
scegliere il libro, ma quest'ultimo a scegliersi i suoi lettori.
Certo ogni libro in qualche modo seleziona il suo pubblico: dalla
scelta del titolo, alla grafica e all'impaginazione, dalla
pubblicazione per i tipi di un editore particolare, dalla
politica della distribuzione e del prezzo, fino alla sua
collocazione tra gli scaffali della libreria, tutto concorre a
selezionare il potenziale acquirente. Ma in questo modo si isola
tutt'al più un universo, non si penetra al suo interno, si
afferrano i contorni non i tratti. La sua invece era una
selezione dichiarata e preventiva, che non ammetteva abusivi:
ogni suo libro infatti era stampato in edizioni private fuori
commercio di 2455 copie, numerate e indirizzate a 2455 lettori.
Così lo scrittore aveva trovato una risposta a una delle tante
domande ancora inevase del fare letteratura: se gli si chiedeva
"per chi scrive" lo scrittore era l'unico a poter fare
un elenco di 2455 nomi... L'ombra dello scrittore si
stagliava dietro la nascita di un'organizzazione di vendita per
corrispondenza di libri scritti apposta, su misura, per chi li
ordinava. Bastava inviare un coupon e dopo un mese arrivava a
casa un racconto, un romanzo, un poema scritto appositamente
sull'argomento, nello stile, con i personaggi richiesti. Con una
modica spesa si poteva entrare in possesso di un testo di cui si
era l'unico destinatario. Per chi non voleva essere uno dei tanti
anonimi lettori di best-seller, per chi non si riconosceva nei
libri che offriva l'industria editoriale, per chi voleva un libro
personalizzato... Lo scrittore e il vecchio redattore
avevano fondato una nuova casa editrice, La matita, che aveva
iniziato lattività con la pubblicazione di un titolo.
Letteralmente. Un libro di 160 pagine tutte bianche che si
intitolava, appunto, "Titolo", con in fondo un elenco
dei titoli di prossima pubblicazione: un romanzo della lettura e,
insieme, una storia della scrittura, una bibliografia
immaginaria, un repertorio fantastico di tutti i libri e un libro
unico, il libro totale, il libro dei libri: il libro
bianco... Il suo stile inconfondibile lo aveva tradito:
qualcuno lo aveva riconosciuto in alcuni manuali tecnici e
istruzioni per l'uso di elettrodomestici prodotti da una fabbrica
che lo aveva assunto come technical writer. Una voce che
circolava solo all'interno dei ristretti gruppi di addetti ai
lavori che si scambiavano questi manuali come reperti preziosi,
artatamente gonfiata dall'azienda di elettrodomestici che aveva
visto accrescersi la propria quota di mercato nonostante
l'obsolescenza tecnica dei prodotti. Questo fenomeno aveva
costretto gli altri produttori a correre ai ripari chiamando le
più grandi firme della letteratura e del giornalismo a compilare
manuali tecnici e guide. Il libro ovviamente non si vendeva da
solo ma insieme al prodotto di cui svelava il funzionamento. Solo
che lesosità dell'investimento (pochi si potevano
permettere di comprare un televisore a colori solo per leggere le
istruzioni per l'uso redatte da uno scrittore minimalista) stava
creando un vistoso fenomeno di pirateria editorial-industriale: i
manuali venivano fotocopiati e venduti sciolti. Il libro, ridotto
a supporto cartaceo, si vendicava diventando protagonista
dell'offerta e relegando il prodotto industriale a supporto
ferroso del libro. Un bel successo, una riaffermazione
dellutilità della letteratura, della necessità e della
insostituibilità del libro come oggetto... Lo scrittore
aveva venduto il genio a un'agenzia di pubblicità e scriveva
testi precisi e perfetti, con umiltà di uno scrivano alle prese
con un compito troppo facile e leggero, e se la rideva sotto i
baffi quando sorprendeva il giovane collega mentre tirava fuori
dal cassetto il manoscritto di un romanzo e scriveva di nascosto,
mimetizzandolo sotto il testo di una brochure e rubando tempo e
pennarelli al lavoro. Si illudeva, il creativo fin troppo
compreso, di essere lui a controllare la scrittura, pensando che
bastava applicarla ad un altro genere per estrarne chissà
quali scintille. Come tutti coloro che sono asserviti
disconosceva il suo stato: non sapeva che proprio la divisione in
generi della letteratura, alti e bassi, nobili e volgari,
popolari e délite, di consumo e di ricerca, rafforzava la
separatezza e quindi il dominio. Credeva, il creativo frustrato,
che la letteratura più era alta, più era svincolata da scopi
pratici, più era pura, disinteressata, inutile, più era
riuscita, e non si accorgeva che così non poteva più uscire
all'aperto, non riusciva più a forzare le porte, a sconfinare.
Da quando era diventata inutile la letteratura aveva perso in
incidenza: ciò che aveva guadagnato in libertà lo aveva perduto
in necessità. Non capiva il giovane di studio che la scrittura
è una modalità dell'essere, un modo di rapportarsi con le cose
e con il mondo, che è una e una sola, che non si può cambiare:
come una donna che non si cambia mai veramente, che è sempre la
stessa, l'unica possibile, come la vita, ché non esistono
doppie vite, se non nei romanzi... Lo scrittore si era
rintanato in una biblioteca. Era diventato uno dei più
agguerriti assertori della new bibliography, nemico implacabile
della bibliografia descrittiva e meno che mai testuale. Guai a
chi gli chiedeva di schedare un libro sui contenuti. Le opere
passano, i libri restano - ripeteva a chi gli faceva notare
lopportunità di approntare schede di ausilio alla ricerca
- le opere possono essere superate, contraddette, contestate, il
libro se è perfetto rimane l'unica certezza. Per questo aveva
iniziato a collazionare diverse edizioni di uno stesso libro,
alla ricerca della copia ideale, quella perfettamente rispondente
alle intenzioni dell'editore, dello stampatore, del legatore.
Nella sua visione anche le pagine bianche che precedono e seguono
il testo, anche i margini bianchi che lo incorniciano, anche gli
errata corrige, le numerazioni dei sedicesimi, gli errori di
legatura, di paginazione, di fascicolazione facevano parte del
libro. Libro che non era più solo testo, che andava distinto in
opera intellettuale e rivestimento fisico, attenuando fino a
farla scomparire la contrapposizione tra lunicità del
manoscritto e luniformità del prodotto tipografico. Da qui
a considerare indifferente il testo, il passo era breve: l'ideale
era un libro senza testo... Lo scrittore aveva risvegliato
un genere letterario ormai desueto, la letteratura d'occasione,
che aveva ritrovato smalto ed efficacia, sia sul piano del
riconoscimento sociale ed economico sia sul versante critico ed
estetico. Chiunque aveva un matrimonio, una nascita, una
scomparsa, un avvenimento particolare da festeggiare poteva
rivolgersi allo scrittore che creava un componimento, un poema,
un discorso, un panegirico adatto all'occasione. Certo, i
componimenti non risultavano sempre originali, ma erano comunque
in grado di riscattarsi con lutilità, con i fini pratici
che li avevano sollecitati. E funzionavano sempre perché i
lettori erano tutti dentro, come destinatari naturali, e perciò
in grado di comprendere perfettamente ogni riferimento, ogni
metafora, ogni parola... Lo scrittore aveva scoperto il
computer: dopo essersi consumato le mani e gli occhi sui pezzi di
cartone, era ossessionato dalla propria grafia e aveva sentito la
necessità di mettere un diaframma più spesso tra pensiero e
scrittura. Il computer faceva apparire ben scritto -quindi ben
fatto?- anche le cose scritte sotto dettatura di alcool, di noia,
di mestiere, come una volta le cose scritte sotto dettatura di
emozioni, di sentimenti, di indignazioni, ora che nessuna penna
resisteva a tanto strazio, usava il computer, suprema macchina,
che dell'uomo non perdonava niente, che tutto divorava e tutto
conservava, che eseguiva anche se le dita inciampavano, che non
si fermava se il cervello si svuotava, che sol una legge
conosceva, che non c'era legge. Ed era inutile battere altri
tasti... Le voci e le dicerie non finivano mai: da ciascun
tronco nascevano, germogliavano e si ramificavano altre voci e
altre varianti che si sovrapponevano alle prime, le soffocavano e
le soppiantavano con il risultato di far dimenticare l'evento che
le aveva generate e di parlare e far parlare solo di se stesse.
L'editore decise di porvi fine e incaricò un giovane scrittore
di talento di scrivere la storia di un libro inesistente, il
racconto di un libro mancato e di un autore perduto. Il giovane
scrittore, che non aveva mai scritto niente su ordinazione,
tentò di rifiutare l'incarico facendo osservare all'editore che,
anche se tutti i libri in fondo parlavano sempre di altri libri,
nessun libro poteva parlare di un libro che non esisteva. Ma
l'editore fu irremovibile e intimandogli di mettersi subito al
lavoro gli replicò che il primo libro certo non parlava di
nessun altro libro e che dell'ultimo libro nessun altro libro mai
parlerà. Il giovane scrittore si arrese e cominciò a
scrivere.
Dopo tutto quello che conta non è certo...
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