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"Il più grande scrittore che non ha mai scritto niente."


Michi Panero, che riempì le pagine bianche con la sua vita Il padre di Michi Panero, Leopoldo, era stato un grande poeta. I due fratelli maggiori di Michi, Juan Luis e Leopoldo María, erano a loro volta grandi poeti. La madre di Michi, Felicidad Blanc, una donna davvero eccezionale e davvero inadeguata, da giovane aveva pubblicato dei racconti e poi, alla fine degli anni Settanta, anche Espejo de sombras (Specchio di ombre), un’autobiografia impietosa e allo stesso tempo delicatissima, bella come un romanzo bello. Tutti in famiglia scrivevano. E anche Michi aveva letto tutto, ma, parole sue, tra la letteratura e scopare scelse di scopare. Negli anni Ottanta Michi Panero fu uno dei pilastri della Movida, non la movida con la “m” minuscola evocata dai giornali ogni volta che in una città di provincia un bar-tabacchi mette due tavolini in strada e c’è un po’ di chiasso dopocena, ma la Movida con la “m” maiuscola, la Movida madrilena che nel giro di pochi anni stravolse la Spagna, la reinventò e, nel frattempo, tritò moltissimi dei suoi protagonisti — scrittori, attori, cantanti, disegnatori, musicisti, registi — che morirono giovanissimi di alcol, di overdose, di Aids.
Michi non scriveva, non recitava, non cantava, non disegnava, non suonava e non girava film. Però Michi c’era. C’era sempre. E beveva. Beveva con impegno. Beveva per provare a difendersi. Beveva per protesta, forse. Tutti lo conoscevano. Grandi autori come Enrique Vila-Matas che pure sapeva che «Michi aveva iniziato già da molto giovane il suo allontanamento dalla scrittura e aveva fuggito la poesia come la peste» lo consideravano uno dei loro, un collega, e di quelli migliori. La sua intelligenza caustica, le sue letture sconfinate, il suo sostanziale disprezzo per tutto e per tutti e forse soprattutto per se stesso, la sua fragile socievolezza, le sue conquiste delle donne più belle erano tra i motori più immobili, eppure più efficienti, della Movida. La professione di Michi? Il vividor. A un certo punto Michi gestì anche un bar, El Universal, una Mecca dell’effervescenza madrilena di quegli anni. Ma, soprattutto, Michi Panero (1951-2004) è stato probabilmente uno dei più grandi scrittori che non hanno mai scritto niente.
La lingua spagnola ha un vocabolo bellissimo che manca in italiano: “letraherido”. Proveniente dal francese 'lettre ferit' attraverso il catalano 'lletraferit', 'letraherido' è un’espressione che ricorre e riemerge nelle pagine degli scrittori, ma che perlopiù è sfuggito ai compilatori di vocabolari e si è quindi rifiutato di assumere un significato stabile. In Montaigne i “lettre ferits” sono quei saccenti che leggono, leggono e ancora leggono ma ritengono poco e «il più delle volte sembrano menomati, anche al di sotto del senso comune».
In catalano, e poi in castigliano, la parola si normalizza in un più generico “amante delle lettere, della letteratura”. Eppure, accanto a 'les lletres' catalane e a 'las letras' castigliane rimangono quel 'ferit' e quell’herido. Un’inquietudine appena, forse. Ma nel Paese di Don Chisciotte, al cui equilibrio i libri non hanno giovato moltissimo, quel 'ferito' segnala che qualcosa non va in questa passione per la lettura e per la scrittura, che qualcosa di sottilmente nocivo può effondersi dalla carta. E Michi Panero, beh, ecco, è stato un principe dei letraheridos. Per fortuna, la recente pubblicazione di Funerales vikingos — una raccolta di 'racconti' che Michi scrisse tra gli undici e i vent’anni, un librino che rischiava di trasformare il suo autore in uno dei più grandi scrittori che qualcosa hanno scritto (e, chissà, magari quel qualcosa non era neanche un granché) — non ha incrinato la leggenda dell’uomo che «non ha mai fatto niente, ma era molto arguto e piacevole» come lo definì il regista-scrittore Javier Rioyo. I 'funerali vichinghi' non sono racconti, ma abbozzi, appunti, quadri, ingorghi di immagini, illuminazioni personali e riverberi di illuminazioni assimilate da un bulimico lettore adolescente. Una serie di prose perlopiù incomprensibili, in cui balugina ripetutamente la grandezza in potenza di uno scrittore che non volle essere tale e nella cui incompiutezza si conferma ripetutamente, consapevole o no poco importa, il suo rifiuto di essere scrittore. Ancora più interessante è El desconcierto, l’altra faccia del libro in senso letterale: la quarta di copertina di Funerales vikingos è infatti l’inizio di un altro testo, impaginato al contrario, che ospita i ricordi di Javier Mendoza, figlio della seconda moglie di Michi Panero, Sisita García Durán, e curatore del doppio volume.
È particolarmente difficile tradurre uno scrittore che non ha scritto niente, quindi in Italia di Michi Panero si sa pochissimo. Ed è un peccato, perché la sua vicenda e quella della sua famiglia raccontano in modo impareggiabile alcuni decenni della storia di un Paese intero. Per raccontare Michi, bisogna iniziare da un film, El desencanto, che fu girato da Jaime Chávarri e che uscì nelle sale pochi mesi dopo la morte del dittatore Francisco Franco, nel 1976.
Nato da un’idea di Michi, El desencanto è un formidabile e forse irraggiungibile antecedente dei più spregiudicati reality show, nonché il film che si gioca con Tatjana di Aki Kaurismäki la palma del documento video con più sigarette accese per minuti di girato. Il “personaggio” principale del film El desencanto, il perno attorno a cui, pur in contumacia, ruota tutta la vicenda, non appare: è il capofamiglia dei Panero, Leopoldo, che è morto quattordici anni prima ed è stato il (notevole) poeta ufficiale del franchismo. Appare invece la vedova di Leopoldo, Felicidad Blanc, ragazza e poi donna di bellezza straordinaria della Madrid bene. E appaiono i tre figli della coppia: Juan Luis e Leopoldo María, anche loro poeti di considerevole talento, e José Moisés Santiago, che i fratelli avevano ribattezzato 'Michi' (da pronunciare con 'c' dolce) e che per tutti fu sempre tale.
Nel film, Felicidad e i suoi tre figli dissezionano e distruggono il ricordo del marito/padre e sbriciolano l’intera famiglia e loro stessi con frasi che oggi possono sembrare tentativi ingenui e tutto sommato innocui di épater le bourgeois, ma che nella Spagna del 1976, che timidamente scostava il coperchio sotto cui l’aveva fatta sobbollire per decenni il regime franchista, esplodevano come delle granate a frammentazione: «Tutto quello che so sul passato, il futuro e soprattutto il presente della famiglia Panero è che è la più maledetta sozzura che ho visto nella mia vita e che sono tutti una banda di sempliciotti, dalle zie ai famosi trisavoli» dice Michi nel film: e questo fu subito un taglio di Fontana nella tela, e nelle trippe, della neonata Spagna postfranchista. In più, tra sanguinarie accuse reciproche, aneddoti, qualche sorriso e ineffabili discussioni tra la madre e i tre figli sui tentativi di suicidio di due di loro e sulle presunte responsabilità di mammà nella frana che con tutta evidenza sta trascinando i Panero in un abisso, si assiste al fallito tentativo di sciogliere un grumo di dolore rappreso. Uno dei più giganteschi grumi di dolore che siano mai stati impressi su pellicola.
Il capofamiglia Leopoldo Panero (1909-1962), bevitore indefesso, campionissimo dell’assenza familiare strategica e manifestazione incarnata della virilità così com’era intesa dagli spagnoli che vivevano all’ombra del Generalísimo, era stato un padre ingombrante. Così lo racconta una poesia del figlio Juan Luis: «Poeta umido come Darío / ti definisce Oreste Macrí / nell’ultima edizione della sua antologia. / Certo, non scopre niente di nuovo, / la faccenda del tuo bere ha già fatto molto parlare / e d’altra parte la comparazione con Rubén Darío è abbastanza onorevole. / Sono state commentate anche le tue prodezze nei bordelli / e alcuni dei tuoi amici sono soliti ripeterle. / (…) E il tuo finale — grasso e scettico — / con i tuoi abiti inglesi che ti piacevano tanto / e il tuo whisky in mano, lavorando per una società nordamericana. / E anni dopo / (…) le vie Leopoldo Panero / e le lapidi a Leopoldo Panero / e il premio Leopoldo Panero / e la scuola Leopoldo Panero / e la tua effigie tra altre illustri / sui muri solenni dell’Ateneo / e, alla fine, la statua di Leopoldo Panero, / che contemplo in un crepuscolo gelido / mentre piove lontano sopra il Monte Teleno».
Nella sua autobiografia la moglie di Leopoldo, Felicidad, conferma in prosa quanto il “grande poeta” incombesse sul resto della famiglia : «Qual è stato il mio sbaglio? Forse il confondere la letteratura con la vita: i libri ci sono per essere letti, non per essere vissuti al fianco di chi li ha scritti».
Il figlio maggiore di Leopoldo e Felicidad, Juan Luis (1942-2013), fu buon poeta e ottimo alcolista. Ma gli applausi, prima che per lui, arrivarono per il figlio di mezzo, Leopoldo María (1948-2014), che scriveva versi perfetti e inquietanti già a quattro-cinque anni. Leopoldo María — ottimo alcolista a sua volta, nonché tossico con reiterate tendenze suicidali — visse per decenni nei manicomi da poeta ufficialmente matto, pubblicò raccolte importanti e poi si avvitò in un fenomeno di aldamerinizzazione che lo condusse a una prolificità torrentizia, con una produzione semiautomatica di versi, talvolta comunque scintillanti, che gli guadagnò grandi stuoli di fan, attratti dal personaggio più che dal poeta.
Mentre i suoi protagonisti continuavano a disegnare le loro parabole discendenti, in Spagna El desencanto diventava uno spartiacque. Il film paneriano — che aveva stracciato in brandelli il modello di società propagandato dal franchismo, di cui proprio Leopoldo Panero era stato il cantore — è ricordato come il momento in cui Madrid e il Paese intero, con qualche ritardo sulle vicine democrazie, gridarono: 'La famiglia è nuda!'. E Michi? Il figlio minore di Leopoldo e Felicidad si sposò due volte e finì sulla stampa rosa. A quarant’anni era un rottame: un tumore e altri problemi di salute lo lasciarono quasi incapace di camminare. Nessuno ti perdona le malattie se sono riconducibili ai tuoi vizi, diceva Michi, che si esibiva come un Emil Cioran orale nelle notti madrilene e scriveva di televisione su giornali prestigiosi, che però man mano chiudevano. Nel 1994, sempre su impulso di Michi, Ricardo Franco diresse Después de tantos años, un sequel non riuscito di El desencanto. Il film, girato quando mamma Felicidad era ormai morta da quattro anni, confermava il collettivo disastro paneriano e, un’altra volta, raccontava un intero Paese, raccogliendo i cocci spagnoli e facendo un bilancio amaro degli anni seguiti alla sbornia con cui si festeggiò il tramonto del franchismo.
Gli amici aiutavano Michi Panero. Lui prendeva i soldi con cui avrebbe dovuto pagare il modesto canone di affitto dell’appartamento ormai in rovina in cui era cresciuto e in cui ancora abitava. E li sperperava subito, come racconta Javier Marías, in un ricordo odioso eppure verosimile di Michi, pudicamente nascosto in quel caso dietro a una “M” puntata che salvaguardava, anche post mortem, i molti anni di amicizia. Il più giovane dei Panero continuava a lamentarsi e intanto, con quei soldi, si comprava un foulard costoso o delle ostriche. Sempre più malato e incapace di pagare l’affitto madrileno, Michi si ritirò ad Astorga, provincia di León, la cittadina in cui suo padre era nato e dove lui morì, a 52 anni.
El desconcierto di Javier Mendoza si aggiunge ora alla già vastissima letteratura precedente e ci offre il ricordo del figlio della seconda moglie di Michi. Con lui, che lo conobbe dodicenne, Michi si cimentò nel tentativo di essere una specie di padre, affettuosissimo, insostituibile, strabiliante e disastroso allo stesso tempo. Negli ultimi mesi della sua vita Michi Panero raccontava che stava scrivendo le sue memorie. Non le scrisse. Stilò soltanto un indice, in quarantuno punti. Forse si ricordava delle frasi che aveva formulato in un breve autoritratto confezionato nel 1976, a venticinque anni, in occasione dell’uscita del film El desencanto: «Da sei anni a questa parte, la mia occupazione è stata quella di sottrarmi alla disgraziata responsabilità di essere l’ultima sorella Brontë (…). Durante questi sei anni mi sono dedicato a fabbricare una macchina, che fosse più o meno divertente — come un flipper — e che, pur essendo maldestra, avesse come nome Michi Panero e come unico obiettivo quello di essere una figura del paesaggio».
Grazie a questa reticenza, Michi Panero è rimasto il più grande scrittore che non ha mai scritto niente. Non costa nulla crederlo. E non è possibile dimostrare il contrario.
GUIDO DE FRANCESCHI IL SOLE 24ORE15.05.2017
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